Problematiche psico-sociali connesse con il concetto del cittadino antico e moderno

Tempo stimato per la lettura di questo articolo: 14 minuti

SCARICA L’ARTICOLO IN FORMATO PDF

 

Città, cittadino e cittadinanza sono termini correlati, anche solo per la stessa radice, ma non hanno ovviamente lo stesso significato, soprattutto “città ” e “cittadinanza”, come diceva Fustel de Coulanges, un sociologo cui oggi spesso si fa richiamo per aver sottolineato la dimensione religiosa dello Stato antico, presso gli antichi non sono sinonimi. Tuttavia, la parola latina civitas, etimologicamente può essere intesa seguendo due accezioni: una prima accezione rimanda alla condizione di cittadino, al diritto di cittadinanza e alla cittadinanza (aliquem civitate donare, concedere a uno il diritto di cittadinanza), seguendo invece la seconda accezione, la parola indica il complesso dei cittadini, la cittadinanza e anche la città, la nazione (Catinensis civitas, la città di Catania; civitas Helvetia, la nazione elvetica; munita civitas, città fortificata). Per de Coulanges la città antica è quella greco-romana intesa come la confederazione non come un insieme di individui, retta da vincoli religiosi dei gruppi che sono già costituiti prima della città. La cittadinanza è pertanto l’associazione religiosa delle famiglie e delle tribù, la città è il luogo di riunione, il domicilio di quella cittadinanza, che non si formava poco alla volta per l’accrescersi del numero di persone e di edifici, ma di colpo con un atto religioso: “niente religione comune, niente legge comune”. Era dunque la religione a stabilire una distinzione tra il cittadino e lo straniero, insistendo sull’onnipotenza della città che trae dalla religione ogni diritto civile e politico ed è essa stessa Chiesa.

In una prospettiva storica, sarebbe utile inquadrare in primis la differenza tra polis e civitas. Giovanni Pugliese Carratelli definisce la polis una creazione greca, comparsa dopo la dissoluzione dei regni micenei, uno Stato in cui esiste il principio di autonomia che trova il suo fondamento nel patto liberamente stretto tra i suoi costituenti e sulla parità dei politai nei diritti e nei doveri e regolato dal nomos ovvero la legge formulata e sancita dagli organi eletti dai politai. La polis è dunque “la forma di vita sociale che faceva veramente liberi gli uomini e permetteva loro di ottenere quel perfezionamento morale il cui raggiungimento superava la labilità dell’esperienza esistenziale” (La Magna Grecia. Il Mediterraneo, le metropoleis e la formazione delle colonie – G. Pugliese Carratelli – Ediz. electa 1985).

La polis è un organismo vitale in cui è molto importante l’integrazione e che si fa promotore di solidarietà umana e di parità di diritti corrispondente a parità di doveri, di cultura, di educazione.

Anche Roma è una polis la cui unità è fondata su vincoli ideali di solidarietà civile; la città romana, urbs nasce come orbis, circolo e diventa il luogo in cui qualsiasi abitante libero dell’impero è fatto cittadino.

Nell’introduzione alla nuova edizione dal titolo Cittadinanza e potere del suo Civis, Giuliano Crifò scrive che “centro di una storia del potere o di una storia della libertà a Roma è il cittadino” [1] certo potrebbe trattarsi anche del popolo inteso sia come soggetto autonomo che come oggetto eteronomo che autodisciplina la cittadinanza,

controllando l’esercizio del potere. Per dirla con Crifò quello che si può salvare della ricostruzione fusteliana “è certamente, anzitutto, la differenza ivi presente tra cittadinanza e città, anche se vanno precisate, come si vedrà, le diverse caratteristiche con cui ciò si verifica nel mondo greco e in quello romano”.

Volendo riprendere le parole di Crifò, “[…] in Grecia il ‘cittadino’ nasce dalla ‘città’, per la città e nella città, mentre a Roma vale il contrario, è dal cittadino e per il cittadino che nasce la città […]. Ora, perché sia possibile distinguere, per così dire, il dentro e il fuori, sembrerà ovvio che si presupponga una nozione, di cittadinanza e di città, politica. Il che non potrebbe non richiedere il dato dell’esistenza di frontiere in qualche modo fissate e comunque quello di una comunità civica da cui ci si possa distaccare o alla quale ci si possa aggregare.

Ma, se è possibile affermare che quelle nozioni sono già formate a Roma fin dall’epoca regia, lo storico sa bene che l’organizzazione sociale del tempo è pur sempre un’organizzazione di tipo gentilizio, che l’elemento politico a Roma non è situato solo nello Stato, ma anche nella famiglia, nel rapporto di clientela, nel valore vincolante della tradizione: una realtà, per di più, che continua a essere attiva in età repubblicana e oltre”.

Civitas era inizialmente la qualità propria del cittadino, solo successivamente ha designato l’insieme dei cittadini, finendo poi per denominare la città. Civis e civitas stanno a designare la condizione di cittadino e il diritto di cittadinanza, l’insieme dei cittadini e la determinazione di sede di un governo, civitas viene per questo usato come sinonimo di urbs ed è traduzione di polis.

Tuttavia, sostiene sempre Crifò sussistono delle ragioni che mostrano lo svolgersi nel corso del tempo di avvenimenti che hanno tracciato in maniera profondamente diversa l’organizzazione della dimensione politica della polis e della civitas, sottolineando quindi la diversità evidente tra la nozione di cittadinanza in Grecia e a Roma. “[…] la polis greca è un legame personale, l’insieme dei polìtai. Il territorio non ne è elemento necessariamente costitutivo: ‹‹ lo Stato sono gli uomini, non le case›› e ovviamente solo quegli uomini che possiedono ‘diritti politici’ e che non si identificano con la popolazione o gli abitanti stabili di un territorio; uomini che possono essere pochi (la polis è un’oligarchia), molti (una democrazia) con esclusione comunque di bambini, donne, sottoposti ad atìmia, stranieri, schiavi. Se la polis è una koinonìa, comunità, non ogni comunità è una polis.

Né la cittadinanza si acquista automaticamente per il fatto della nascita e, nello stesso modo in cui la si acquista, per deliberazione dei cittadini, se ne può venire esclusi. Il cittadino, membro della polis […], partecipa direttamente agli atti essenziali della comunità statale […]. Fondamento della polis è la dike, il diritto e la giustizia, un ordine più alto, la politèia, cioè, prima ancora che ‘costituzione’, la legge comune di vita, la forma di vita della comunità della polis, forma duratura e costante che unisce i vivi e i morti, potremmo dire corpo (cittadinanza) e anima (nomos). La polis, insomma, è una comunità legata da un principio spirituale .

Claudio De Luca afferma che: “Fu a partire dalla Rivoluzione francese, con il sorgere di una tipica figura di Stato nazionale e di diritto, con il tramutarsi delle strutture politiche e sociali in forme essenzialmente unitarie sul fondamento dello spirito nazionale, che l’idea della cittadinanza emerge con chiarezza di contorni e divenne oggetto di specifica considerazione sistematica da parte dei legislatori, per cui di leggi vere e proprie sulla cittadinanza non può parlarsi se non a partire da questo periodo[2]. La disciplina legislativa della materia trova legittimazione oltre che nell’affermazione di una coscienza nazionale e statale, nella necessità di fissare le condizioni per il godimento dello status activae civitatis, cioè dei diritti politici e per la sottoposizione ad obblighi di tipo politico, in particolare gli obblighi militari.

Le esigenze che hanno portato al riconoscimento della cittadinanza da un punto di vista giuridico si sono a poco a poco manifestate nel tempo, tuttavia si conviene che è nel periodo sopra descritto che, a causa di sconvolgimenti sociali e politici, l’istituto della cittadinanza assume la sua fisionomia, trovando inoltre una concreta sistematicità in corpi legislativi, che inizialmente muovono da un’incertezza per poi giungere, con il code civil francese, alla scelta del criterio dello jus sanguinis.

La cittadinanza rappresenta la condizione giuridica di quanti appartengono a uno Stato in ragione di un collegamento con il suo territorio e implica il riconoscimento di uno status che si fonda sul principio di uguaglianza e sul principio della tutela dei diritti inviolabili della persona.

Oggi si parla di cittadinanza a vario titolo, si discute ad esempio di cittadinanza elettronica, di cittadinanza attiva, cittadinanza sociale e questo restituisce in parte l’idea di quanto sia variegato e complesso il panorama all’interno del quale si cerca di inquadrare il problema della cittadinanza, al di là di una sua specifica definizione normativa, che tuttavia a questo punto è opportuno fornire. Quando si parla di cittadinanza si fa riferimento, per lo più, ad uno status giuridico-legale (quello di cittadino), quindi ad un’ideale di appartenenza ad un territorio, includendo diritti e doveri che a questa condizione direttamente sono correlati. La parola cittadinanza, infatti, indica il rapporto di appartenenza di un individuo ad uno Stato, traducendosi in un insieme di diritti e di doveri riconosciuti. La maggioranza degli Stati democratici, Italia compresa, stabiliscono che nessuno può essere privato per motivi politici della cittadinanza. La Costituzione italiana stabilisce che nessuno può essere privato di due requisiti essenziali della cittadinanza: il nome e l’essere titolare di diritti, ovvero di essere in possesso di capacità giuridica.[3]

Gran parte delle riflessioni filosofiche e sociologiche intorno ai modelli di cittadinanza e al concetto di cittadino risulta incentrata sull’alternativa tra il concetto antico di cittadinanza e quello moderno, cioè l’alternativa tra il primato della polis, il primato del tutto e del gruppo, e al contrario, il primato dell’individuo, dei diritti soggettivi, dell’affermazione della società civile, che contraddistingue la democrazia e la cittadinanza moderna. Al di là delle differenze riscontrabili tra la cittadinanza di un cittadino greco di Atene, o un cittadino romano nell’era repubblicana o dell’impero, o il cittadino borghese delle città medioevali e delle repubbliche italiane, o più tardi il cittadino delle monarchie e il cittadino degli Stati nazionali dell’Ottocento, è possibile individuare un elemento che rimane costante, un principio di chiusura, quello cioè che la cittadinanza non può essere universale.

La cittadinanza sta ad indicare, dunque, un particolare legame, in virtù del quale i cittadini godono di una condizione giuridica, cioè di uno status.

In Italia, i criteri per l’attribuzione della cittadinanza sono regolati dalla legge n. 91 del 1992. La cittadinanza si acquisisce, al momento della nascita, sostanzialmente in base a due criteri: il criterio dello ius sanguinis e il criterio dello ius loci. Il primo è il diritto di sangue in base al quale è cittadino, dovunque nasca, chi è figlio di un cittadino, madre o padre che sia. Il secondo è il diritto di luogo, in virtù del quale è cittadino chiunque nasca nel territorio dello Stato.

Per il nostro paese, la legge 91 del 1992 indica il principio dello ius sanguinis quale unico mezzo per acquisire la cittadinanza a seguito della nascita, mentre l’acquisto automatico della cittadinanza iure soli continua a rimanere limitato ai figli di ignoti, di apolidi, o ai figli che non seguono la cittadinanza dei genitori. La disciplina contenuta nel provvedimento varato dal Consiglio dei ministri del 4 agosto 2006 introduce una nuova ipotesi di ius soli proprio con la previsione dell’acquisto della cittadinanza italiana da parte di chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri di cui uno almeno sia residente legalmente in Italia senza interruzioni da cinque anni al momento della nascita.

Vi sono altri modi per acquisire la cittadinanza, come nel caso della “iure communicatio”, che consiste nella trasmissione all’interno della famiglia da un componente all’altro (matrimonio, riconoscimento o dichiarazione giudiziale di filiazione, adozione), o nel caso di “beneficio di legge”, qualora accada che, in presenza di determinati presupposti, la concessione avvenga in maniera automatica, senza che sussista la necessità di farne specifica richiesta, e, infine, nel caso della “naturalizzazione”, che comporta non una concessione automatica del nuovo status ma una valutazione a discrezione degli organi e degli uffici statali competenti. Nei vari Paesi, i diversi criteri adottati o le condizioni richieste affinché si possa acquisire il diritto di cittadinanza derivano dalle scelte politiche portate avanti in materia di immigrazione. In Italia, ad esempio, la legge tende a privilegiare lo ius sanguinis e quindi a mantenere una certa omogeneità della comunità nazionale. Lo ius loci, al contrario, favorisce l’inclusione degli immigrati, i cui figli possono facilmente diventare cittadini; ancora, per quanto riguarda la condizione legata alla durata della residenza occorrente all’acquisizione della cittadinanza, vengono riscontrate nei diversi Paesi delle differenze che sono frutto di scelte politiche diversificate, basti pensare che per la legge italiana tale durata è di dieci anni, mentre per le leggi francese e inglese di cinque.

Nel nostro paese, le leggi in vigore che riguardano le persone di origine straniera producono ingiustizia sociale, basti pensare a coloro i quali nascono in Italia da genitori stranieri e possono chiedere la cittadinanza solo una volta compiuti i diciotto anni o ai lavoratori stranieri, che pur pagando le tasse non hanno il diritto di scegliere chi amministra la città in cui vivono. In questo periodo (autunno 2011), in Italia si sta svolgendo proprio una campagna nazionale per i diritti di cittadinanza e il diritto di voto, promossa in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia da diciotto associazioni e dall’editore Carlo Feltrinelli e il cui comitato promotore è presieduto dal sindaco di Reggio Emilia Graziano Delrio.

La nozione di cittadinanza è da considerarsi come categoria centrale di una concezione della democrazia che sia fedele ai principi della tradizione liberaldemocratica. La cittadinanza certamente si ricollega ad una teoria della democrazia. L’eclissi dei regimi socialisti ha determinato l’esaurimento del marxismo teorico, segnando l’inizio di un profondo malessere della dottrina liberaldemocratica. Studiosi come Dahl, Dahrendorf, Bobbio, autorevoli teorici del pluralismo democratico si chiedono se la democrazia sia in grado di vincere la sfida con se stessa, dal momento che gli istituti della rappresentanza politica appaiono sempre meno adeguati alle esigenze decisionali della società complessa a cui si è giunti anche grazie al loro apporto. Il socialismo e il liberalismo sono stati i principali interpreti della profezia di emancipazione che ha animato il progetto politico della modernità. In seguito al fallimento del socialismo reale, alla crisi del Welfare state, le filosofie postmoderne considerano la pretesa moderna di unificare il mondo in un progetto di emancipazione dell’uomo alla stregua di un’illusione. Né tantomeno è ipotizzabile che il socialismo o i regimi liberaldemocratici abbiano futuro. Intanto lo sviluppo robotico, telematico e multimediale sembra imporre la necessità di un governo dei tecnici, in aperto contrasto con il principio democratico in virtù del quale tutti i cittadini possono decidere su tutto. A ciò si uniscono tutti quelli che rientrano nel novero dei nuovi problemi che riguardano le società: rivendicazioni etniche, esplosione demografica, problemi ecologici, sbilanciamento tra la crescente ricchezza dei paesi industrializzati e la povertà di intere zone del pianeta. La democrazia era stata pensata per società molto più semplici di quelle attuali, cosa rimane ne rimane dunque. Bobbio sostiene che si possa rintracciare un contenuto minimo della democrazia che consiste nella tutela delle libertà fondamentali e il sistema di garanzie istituzionali e procedurali dello Stato di diritto. In questo senso, la cittadinanza come sostiene Zolo (cfr. D. Zolo, La cittadinanza. Appartenenza, identità, diritti, Laterza, Roma-Bari).

Beck adopera tre termini per indicare altrettanti aspetti del fenomeno della globalizzazione: il termine globalità, globalismo e globalizzazione. Con il primo si riferisce alla consapevolezza di vivere in una società globale e interconnessa, con il secondo indica la dimensione esclusivamente economica della globalizzazione ed infine con il terzo vuole evidenziare gli aspetti planetari del cambiamento. [4]

Lo studioso canadese Marshall McLuhan negli anni Sessanta ha elaborato quella che viene considerata la più famosa teoria generale sui media, un’esplorazione sull’evoluzione degli strumenti tecnologici elaborati dagli uomini nel corso del tempo, per produrre comunicazione. In sintesi, le principali innovazioni tecnologiche prese in esame dallo studioso canadese sono: l’invenzione dell’alfabeto fonetico, l’introduzione della stampa, l’invenzione del telegrafo. A tali innovazioni corrispondono quattro epoche definite che sono il tribalismo pre-alfabetico, il periodo della scrittura, l’età della stampa, l’era dei mezzi elettronici. Ogni epoca risulta così determinata da una tecnologia che ne rappresenta il motore, configurandone appunto la forma: la tappa finale del processo di sviluppo storico dei media è quella dell’era elettronica, caratterizzata dalla cosiddetta ri-tribalizzazione. Secondo lo studioso stiamo vivendo in un villaggio globale, il che significa che chiunque viva nel più remoto dei villaggi è in grado di condurre, grazie alla simultaneità e all’estensione dei mezzi elettronici, una vita cosmopolita come quella che condurrebbe in una grande metropoli. Mentre la stampa centralizza socialmente e frammenta psichicamente, i mezzi elettronici uniscono gli uomini in una grande comunità. Lo spazio elettronico è totale e ci riporta alla società chiusa dalla quale la stampa ci aveva tirato fuori diversi secoli fa.

Le particolarità storico-naturali – lingua, religione, tradizioni morali e culturali, valori etnici, folclore, dialetti, ambiente geopolitico, vicende militari, miti e rituali – svolgono il ruolo di precondizioni di fatto dell’appartenenza di un soggetto al gruppo politico perché sono le condizioni stesse del costituirsi del gruppo politico e della sua identità distintiva. […] L’identità individuale rinvia alla tutela della privacy e all’universalismo dei diritti soggettivi, ma esige nello stesso tempo l’immersione comunicativa del soggetto nell’humus culturale, nel folclore di cui vive il particolarismo di ciascun gruppo. Insomma, l’ethnos è il necessario presupposto, la radice del demos. […] Nello Stato moderno è perciò del tutto legittima la struttura plurietnica del demos: in linea di principio, a condizioni di carattere esclusivamente procedurale, la cittadinanza deve poter essere attribuita anche agli stranieri”.

 

Giovanni Teresi

 

 

[1] Cfr. Introduzione alla nuova edizione. Cittadinanza e potere in G. Crifò, Civis. La cittadinanza tra antico e moderno, Editori Laterza, Roma-Bari 2005, p. IX.

 

[2] C. De Luca, Educare alla cittadinanza. Quale futuro?, in G. Spadafora (a cura di), Verso l’emancipazione. Una pedagogia critica per la democrazia, Carocci, Roma 2010, p. 277.

 

[3] Art. 22 Costituzione “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome”

 

[4] Cfr. U. Beck, Che cos’è la globalizzazione: rischi e prospettive della società planetaria, Carocci, Roma 1999.

 


Save pagePDF pageEmail pagePrint page