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Nascita del calcolo differenziale
di Antonio Pucci
Abstract
This paper presents a synthetic excursus across the centuries about the differential calculus. Archimedes represents the first sample of the building with his exhaustive method to which addictive and original contributions have been added by Leibniz and Newton giving bones to this new branch of mathematics. In fact by means of the discovery of the differentiation and of the integration the main line towards the infinitesimal calculus will be opened. Here it is possible to find out the pathos of the scientists as well as of the ones who have made them live.
Al termine di una lezione di matematica un allievo si avvicina al professore e gli rivolge la domanda se la matematica sia una creazione dell’uomo o se essa sia implicita nella natura. Il quesito lascia un attimo pensosi, ma la risposta quasi immediata è la seguente: l’aritmetica dapprima e la geometria e le matematiche sono nate da un bisogno connesso alla conoscenza più profonda della natura. È la natura che ha dato spunto e stimolo al desiderio di meglio comprenderla. L’astrazione che ne è scaturita ha permesso con sorpresa e con sommissione di comprendere e vedere l’alone grigio dell’interrogativo messo a fuoco dal desiderio di capire.
Sono i grandi del pensiero che hanno schiarito nel tempo le ombre nere ed ignote del non sapere, la cui sussistenza non ha mai turbato gli studiosi fino al momento dell’intuizione e della scoperta poi diffusa alla comunità umana.
Tra i primi grandi pensatori antesignani, che si ricordano, troviamo Archimede, inserito nella letteratura moderna così come nella fumettistica e continuamente e sempre citato dai più, il cui genio rimase incompreso per più di un millennio e le cui intuizioni risultano ancora oggi sorprendenti.
Il suo metodo di esaustione, utilizzato per il calcolo dei volumi di solidi e delle aree di figure piane, non utilizza il concetto di limite, oggi in uso in analisi, ma quello della dimostrazione per assurdo di un risultato considerato già conosciuto. Peraltro egli non generalizzò mai il proprio metodo, ma lo utilizzò di volta in volta, secondo la necessità, senza fornire una dimostrazione generale unica.
Altri grandi continueranno il percorso tracciato da Archimede; ciò grazie alla divulgazione realizzata dai greci e dai romani alle generazioni future delle sue scoperte scientifiche e delle sue invenzioni. Si deve poi giungere al Rinascimento per ottenere la traduzione delle sue opere in latino da parte degli studiosi.
Nel Rinascimento ulteriori metodi originali furono trovati per la determinazione di aree e volumi. Ma ben presto essi risultarono insufficienti di fronte alla necessità sorta di individuare nuovi algoritmi di integrazione (quadratura) da utilizzare per le nuove funzioni più complesse.
La scoperta della nuova operazione detta derivazione, che risultò poi l’operazione inversa della integrazione, di natura più elementare, permise con sorpresa di aggirare il problema. È da questo momento che viene individuata la strada che condurrà al calcolo infinitesimale.
Quello che risultò sorprendente fu che la nuova operazione potesse essere applicata indistintamente a tutte le funzioni note; e non solo, perché la tabella realizzata delle derivate delle funzioni elementari canoniche, letta al contrario, forniva implicita la tabella degli integrali delle funzioni derivate, proprio quella stessa che permetteva di calcolare aree e volumi!
È Fermat il primo a definire il concetto di derivata, ponendo un nuovo tassello fondamentale nel mosaico dell’analisi infinitesimale, utilizzato nel suo lavoro “De maximis et minimis” dove egli utilizza un procedimento teorico oggi in uso. Tale manoscritto, realizzato in numero limitato di copie, fu spedito anche a Torricelli, il quale forse non ne comprese l’importanza, sebbene in seguito riuscisse a formulare il fondamentale teorema di reciprocità, nella accezione cinematica, divenuto poi famoso come il “Teorema di Torricelli– Barrow”. Anche Barrow non comprenderà, venti anni dopo, le intuizioni implicite in esso contenute non riuscendo a sostituire all’ente tangente quello di derivata; sarebbe stato ignorato dai posteri se verosimilmente non avesse avuto tra i suoi allievi Isacco Newton.
Queste righe non vogliono scrutare nei dubbi che hanno affannato gli studiosi. È vero che i turbamenti, che sorgono durante l’indagine, sulla soglia della scoperta, sono i più toccanti, ma qui si desidera porsi sul confine della conoscenza umana, dove l’esploratore guarda il nuovo mondo con gli occhi dello stupore. Torricelli non ebbe coscienza della valenza della sua scoperta, alla quale non diede la divulgazione meritata. Saranno i matematici posteri a comprenderne il significato ed a porla nella collocazione degna che la modestia dello scienziato aveva impedito.
È con Wallis che ha inizio la partecipazione agli studi della nuova branca da parte della scuola inglese, la quale con Isacco Newton ne diverrà precorritrice. Ma prima di giungere ad una tappa definitiva di sistemazione rigorosa, effettuata da Newton e da Leibniz, saranno necessari alcuni decenni di incubazione perché sia compresa e compiuta la connessione stretta tra le operazioni di derivazione ed integrazione.
Le origini delle derivate sono caratterizzate da due motivazioni: la prima geometrica, propria del problema delle tangenti ovvero di quello dei massimi e dei minimi. La linea di sviluppo è quella atomistica che conduce a Leibniz attraverso Democrito, Keplero, Fermat, Pascal e Huygens. La seconda è quella cinematica specifica per la determinazione oraria del moto, che conduce a Newton attraverso Platone, Archimede, Galileo, Cavalieri e Barrow. Su questi due filoni, apparentemente distinti, si muoverà la scoperta e lo sviluppo da parte dei due scienziati, proprio come due raggi di sole che si divaricano ma profondamente connessi nella sorgente comune.
Ecco di nuovo il libro della natura, proprio quello nel quale ciascuno può trovare le stesse leggi implicite che la concernono, soprattutto quelle ignote, ma che permeano da sempre la totalità. La mente umana, anche essa, fa parte della natura, ma non è codificata da leggi perché la creatività è libera in essa, sebbene sia esistente. Ma allora Isacco Newton che è seduto nel giardino delle mele pensando alle flussioni(!); come ha fatto a comprenderle e a teorizzarle? Ci sono i grandi che lo hanno preceduto, che lui ha amato, che ha compreso; è in questa congiunzione che nascono le nuove idee. Nuove per chi?, se già sono implicite nella natura ?; di certo nuove per la mente che le ha intuite.
È lecito chiedersi perché Newton abbia usato il termine flussione. Le note variabili cartesiane (x,y,z) che nella mente umana di ciascuno rappresentano le coordinate di un punto nello spazio tridimensionale, sono qui funzione della variabile tempo “t”. Esse acquistano perciò una connotazione parametrica, come si dice in geometria, quando ci si pone nello spazio affine. È questa la ragione per cui Newton considera le tre variabili come dipendenti da “t” e definite perciò da lui come “fluenti”, poiché un certo punto materiale si muove nello spazio da un punto ad un altro in un certo tempo. È così che nasce la velocità, utilizzando per essa il termine “flussione”, distinto da “fluente”. L’evento in movimento considerato è caratterizzato da coordinate spazio temporali, proprie della cinematica, le quali vengono indicate da Newton con la terna ().
Newton ebbe l’idea delle flussioni nel periodo in cui seguiva le lezioni di Barrow (1665) subito dopo la sua scoperta del noto teorema che assunse il suo nome: “Binomio di Newton”.
Nella sua opera “De analysi per equationes numero terminorum infinitas”, rimasto inedito fino al 1711, non ne fa comunque cenno, preferendo utilizzare il concetto di infinitamente piccolo e fare perciò riferimento ad un rettangolo indefinitamente piccolo, definito da lui in modo criptico come “momento” (nella accezione geometrica). Nel suo gioco con l’infinitesimo egli usò il simbolo letterale algebrico “o” (non zero), detto anche “momento”. Non essendo un matematico ma un empirista, non chiarì mai il suo metodo con rigore; ma ne fece il fondamento della sua successiva opera “ Methodus fluxionum et serierum infinitorum “, scritto nel 1671 ma pubblicato nel 1736. Qui utilizzò la stessa idea conduttrice dell’opera precedente e, benché non prendesse più in considerazione il tempo, basò l’indagine riferita al moto continuo (!), portando esempi per la determinazione della flussione per y=xn . Dato “o” infinitamente piccolo (nostro differenziale del parametro(!)), Newton applica lo sviluppo del suo binomio alla funzione ottenendo come risultato, identico al risultato del De analysi senza l’uso delle flussioni. Per ottenere questo risultato Newton dovette eseguire una forzatura, cioè eliminare gli “infinitamente piccoli” (infinitesimi) di ordine superiore, cioè quelli che avevano esponente maggiore o uguale a due. Questo fu un atto coraggioso ed avveniristico, perfettamente lecito con un passaggio al limite; ma Newton non ebbe la volontà di procedere su questa strada, cioè di introdurre questa nuova idea. Decise di seguire un nuovo originale metodo che utilizzerà nella sua opera susseguente: “De quadratura curvarum”, pubblicato nel 1704. Egli non spiega perché invece di usare usi ; in realtà ciò fu dovuto al fatto che in questo caso considera “x” chiaramente come variabile indipendente e perciò non dipendente dal parametro tempo “t”, conseguendo che . Nella sua convivenza con il tempo, Newton, in casi diversi, lo considera presente, anche se precedentemente lo ha escluso, in una sorta di conflitto con se stesso.
Newton venne a sapere nel 1676 che Leibniz stava studiando tematiche simili alle proprie e quindi si premurò di fargli recapitare da Oldenburg (socio della Royal Society) una missiva contenente, in forma anagrammatica, la sua teoria sul “calcolo”; ciò al fine di assicurarsi la priorità della scoperta.
La descrizione compiuta della nuova teoria appare con la pubblicazione dei “Principia matematica philosophiae naturalis” nel 1687 (rif. 4). Qui, nel secondo libro, è riportato il suo pensiero criptico:
“Il momento di qualsiasi genitum è uguale ai momenti dei suoi lati generatori moltiplicati per gli indici delle potenze di tali lati e per i loro coefficienti, in modo continuo”.
Questa frase riporta termini ermetici, ma, per ben comprenderli, Newton considera come primo passo un rettangolo di lati A e B. Appare evidente che “genitum” sta per nascita, origine del “calcolo”; che i momenti sono gli incrementi (a/2 di A e b/2 di B) o i decrementi (-a/2 per A e -b/2 per B) dei lati del rettangolo dato; che, calcolata l’area del rettangolo maggiore ((A+a/2)(B+b/2)) e di quello minore ((A-a/2)(B-b/2)), realizzata la loro differenza, il risultato è il momento del primo ordine della variazione dell’area del rettangolo base il cui valore vale “aB+ bA” (=2aA se B=A); che con la procedura realizzata, di fatto, vengono eliminati gli infinitesimi (momenti) del secondo ordine; che iterando il suo algoritmo, il momento di An diviene “nA(n-1)a”!
Un altro scienziato coevo che parallelamente realizzò le proprie ricerche sullo stesso tema fu Gottfried Wilhelm Leibniz.
Dai suoi scritti, risalenti al 1673-1675, appare evidente la sua conoscenza della notazione del calcolo differenziale. L’intera sua produzione scientifica è contenuta negli “Acta Eruditorum” , periodico fondato a Lipsia e pubblicato dal 1682 al 1745, contenente ventisei articoli sul calcolo differenziale ed integrale.
Uno dei primi lavori sull’argomento, pubblicato nel 1684 negli Acta, dove le sue idee sono in nuce, è: “Nova methodus pro maximis et minimis, itemque tangentibus quae nec fractas nec irrationales quantitates moratur, et singulare pro illis calculi genus.” (Nuovo metodo per la determinazione dei massimi e dei minimi e anche delle tangenti, il quale non è ostacolato né dalle quantità razionali né irrazionali; nonché l’originale metodo per il loro calcolo.). Va evidenziato che talune parti di questa memoria ne ricordano una di Fermat, di fatto precursore.
La nuova branca della matematica, a cui Leibniz aveva contribuito a dare scaturigine, doveva avere una notazione ed un linguaggio consono.
Dopo vari tentativi la scelta cadde sulle minime differenze possibili (differenziali) dx e dy, sebbene all’inizio egli fosse partito da x/d e y/d per indicare l’abbassamento di grado. Peraltro, per indicare la somma di tutte le ordinate di una curva, usò la scrittura “omniay”; successivamente il simbolo (integrale di y) e ancora più tardi, dove il simbolo di integrale è l’ingrandimento e l’allungamento della lettera “S”, acronimo di “sommatorius”.
Il segno di integrale che si trova in un manoscritto del 1675, appare per la prima volta in un lavoro stampato del 1686: ” De geometria recondita et analysi indivisibilium atque infinitorum” (pag. 137-138/3). Un esame più accurato dell’operazione di integrazione e la dimostrazione si trova ( pag. 247/3) nella memoria “Supplementum geometriae dimensoriae seu generalissima omnium tetragonismorum effectio per motum: similiterque multiplex constructio lineae ex data tangentium conditione” del 1693.
Importante è il lavoro “Specimen novum analyseos pro scientia infinita circa summas et quadraturas” del 1702 ove si assegna il procedimento per la integrazione di una funzione razionale mediante scomposizione di questa in una somma di frazioni semplici.
L’articolo di Leibniz “Nova methodus…..” segna di fatto la nascita della moderna analisi. Egli introduce le regole di differenziazione, mostrando poi come si possono determinare i massimi, i minimi ed i flessi delle curve, sottolineando la maggiore semplicità del metodo di calcolo delle differenze (differenziali) rispetto agli altri metodi, per la risoluzione del problema delle tangenti.
La velocità di variazione di una curva nel piano cartesiano fu studiata da Leibniz e da Newton in modo distinto. Leibniz ebbe forse per primo l’idea di considerare tale proprietà la cui peculiarità connotò col nome di derivazione. Tale operazione era caratteristica della funzione specifica, consistendo nel determinare la retta tangente alla curva in un punto determinato. Ma quale è il procedimento da seguire?
Il 21 giugno del 1677 Leibniz, in risposta ad una lettera di Newton, delinea gli elementi essenziali del proprio calcolo alle differenze (o calcolo differenziale; così si dirà in seguito).
Leibniz parte da una curva y=f(x), suppone che sia tracciata la retta tangente uscente da un punto (x,y) della curva; dato poi ad x un incremento qualsiasi che egli chiama differenza, indicandola con dx, sceglie il differenziale della funzione dy, in modo che il rapporto dy/dx uguagli il coefficiente angolare della retta tangente (ossia la derivata) alla curva.
Questa definizione coincide con quella che si dà oggi nei moderni trattati di calcolo. Ma mentre in questi le operazioni sui differenziali vengono dedotti dalle corrispondenti operazioni sulle derivate, Leibniz enuncia le regole di quelle operazioni (differenziale della somma, del prodotto, del quoziente, della potenza a esponente razionale) senza parlare mai di derivata e senza introdurre i concetti di limite o di infinitesimi dei vari ordini.
Inoltre Leibniz introduce anche il differenziale secondo, con la notazione ddy (d2y), ed afferma che il suo segno permette di definire se la curva ha concavità verso l’alto o verso il basso.
Ma per quasi un secolo tale metodo di calcolo fu mal tollerato dai matematici perché ancora risultava ostica l’idea del differenziale, di quantità estremamente piccole. Erano idee troppo rivoluzionarie ed avveniristiche. Era necessaria una più profonda maturazione per varcare le colonne di Ercole della conoscenza. Quello che lasciava perplessi era questo rapporto incrementale, questo rapporto 0/0! La confusione aumentava quando Leibniz sostituiva Dy con dy e Dx con dx, cioè non più infinitesimi ma quantità infinitamente piccole. Stupefacente: il rapporto di questi due differenziali, cioè dy/dx è proprio uguale alla derivata della funzione data: f’(x)!
Il contributo di Newton e Leibniz in questo campo fu fondamentale. Con il concetto di somma infinita, che tanto turbava il sonno dei matematici, loro coevi, si assistette all’evoluzione della nuova analisi. La grande novità stava nel fatto che gli innovativi concetti e le operazioni di integrazione e derivazione erano l’una l’inversa dell’altra, come in una inseparabile e stretta congiunzione.
In questo scritto non è stato fatto alcun riferimento alla disputa sulla priorità della invenzione fatta dai due scienziati. Tuttavia il conflitto avvenuto tra i due giganti è stato forse dettato dal desiderio di eternità. La grandezza riconosciuta ai due studiosi dalla comunità scientifica ugualmente li esalta, senza il discredito della loro controversia, perché entrambi hanno dato all’umanità la giusta chiave.
Bibliografia
- Castelnuovo G., Le origini del calcolo infinitesimale nell’era moderna con scritti di Leibniz, Newton e Torricelli, Feltrinelli, Milano (1962).
- W. Leibniz, Naissance du calcul differentiel, Vrin, Parigi (1995).
- Courant. H. Robbins, Che cos’e la matematica?, Boringhieri (2002).
- B. Boyer, Storia del calcolo, Mondadori (2007).
- Newton, Principi di filosofia naturale, Albero Stock (1994).