Mainikka Mainardi: Le bambole di Euripide

Le bambole pericolose di Euripide
di Monica Mainikka Mainardi 

Abstract
Being forcedly isolated in a harmless, induced stupidity, in order to keep her dangerousness under control, the woman is a victim of cultural misoginy, which reduces her to a ‘doll’. The man can play with her, continuously belittle her, and throw her away as he likes. However, Euripides must have experienced that the woman is unlikely to accept humiliation without striking a blow; therefore, his heroines are able to find a logic in their most dangerous irrationality; and it is under the guidance of this logic that they tragically act.

E’ sempre curioso rileggere la superba drammaticità con cui Euripide inscena le vicende delle sue eroine; Elena, Alcesti, Fedra, Medea…: grandi donne, protagoniste attive di destini tragici, vive e vere nell‟affrontare fino al culmine il doloroso sviluppo delle trame tessute per loro dal fato, capaci di passioni violente e intimi sentimenti, sempre consapevoli della loro densa e cruda umanità. A lungo si è discusso e ancora si discute circa la reale posizione di Euripide nei confronti della questione femminile: c‟è chi ritiene Euripide fondamentalmente misogino, in linea del resto con la cultura greca antica, chi vuole assegnargli invece una sensibilità forse troppo moderna… certo è che Euripide fu attratto dalla „psicologia‟ delle donne, fino a riuscire come nessun altro antico a descriverne la vera essenza. Riporterò qui alcuni fra i versi euripidei più famosi che inequivocabilmente sollevano la questione relativa alla condizione della donna: sono tratti uno dalla Medea e l‟altro dall‟Ippolito, e li ho scelti volutamente in netto contrasto tra di loro, perché contrastante sembra sempre Euripide: “tragicissimo e filosofo della scena, razionalista e passionale, ateo e mistico, immorale e predicatore: ecco alcuni degli aspetti contrastanti che antichi e moderni hanno visto in Euripide, e che per essere solo parzialmente veritieri, confermano innanzitutto la impossibilità di chiuderlo in uno schema, in una
formula. Perché Euripide è, appunto, l‟uomo dei contrasti.” (Raffaele Cantarella)
Nella Medea di Euripide la personalità dell‟eroina, umiliata e follemente vendicativa, domina totalmente la scena dall‟inizio alla fine; più che la disperata vicenda della sventurata, i cui episodi si sviluppano ben connessi in una struttura unitaria, è l‟assoluta centralità del personaggio che determina l‟eccezionale tensione drammatica della tragedia. Interessante è il primo episodio, tutto dominato dalla lucida iniziativa di Medea, sposa abbandonata e lontana dalla patria, a tramare propositi di vendetta: esce di casa e si sfoga con le donne del Coro, a cui chiede la promessa del silenzio. La propria sorte la spinge a considerazioni di carattere generale sulla condizione della donna rispetto ai diritti dell‟uomo.
Questa sciagura che si è abbattuta inaspettata su di me mi ha devastato
l’anima. Sono finita e non provo più gioia a vivere, desidero morire, amiche
mie. Il mio sposo, nel quale riponevo tutto, lo so bene,
mi si è rivelato il peggiore degli uomini. Fra tutte le creature fornite di anima
e intelligenza, noi donne siamo le più
infelici. Innanzi tutto dobbiamo comprarci con una cara dote uno sposo, anzi
prendere un padrone del nostro corpo,
che è un male peggiore del primo. Ma in ciò c’è un grosso rischio:
riceveremo un bravo o un cattivo marito?
D’altro canto la separazione è infamante per le donne e non è possibile
ripudiare un marito. E poi, una donna che
entra in un ambiente di norme e usi diversi, deve essere un’indovina -
perché non lo ha imparato
a casa sua – per sapere come dovrà passare le sue notti. E se in tutto questo
riusciamo bene e lo sposo sopporta di buon grado la convivenza, allora sì che l’esistenza è
invidiabile. In caso contrario morire è
meglio. Un uomo, quando ha fastidio di starsene in famiglia, esce, libera il
cuore dalla noia, si ritrova con amici e
coetanei; noi donne, invece, dobbiamo avere sotto gli occhi sempre una sola
persona. Dicono che conduciamo una vita senza pericoli, in casa, mentre loro vanno in guerra.
Che ragionamento sciocco!
Preferirei tre volte stare schierata dietro uno scudo che partorire una volta sola.
Ma questo discorso non è uguale per me e per te. Tu hai questa tua città, la
tua casa paterna, vita agiata, in mezzo agli
amici. Io invece sono sola, priva di patria, oltraggiata dal mio uomo,
strappata come preda da una terra di
barbari. Non mi possono salvare madre o fratello o parenti. Una sola cosa
vorrò da te: se trovo un mezzo, un modo per ripagare del male che mi ha
fatto mio marito e sua
moglie e suo suocero, tu taci! La donna è piena di paure, trema di fronte
all’azione violenta e alla vista di un’arma.
Ma quando è calpestata nei suoi affetti, non esiste cuore
più sanguinario del suo.
(Medea, vv. 225-265 – traduzione di M.Mainikka)
Privata della libertà e dei sentimenti, senza rapporti sociali né culturali, dalle parole di Medea la donna greca appare relegata in un‟infelicissima condizione frustrante e disumanizzante, scoprendosi ridotta ad un oggetto, di cui l‟uomo può disporre quale assoluto padrone. Lo sfogo di Medea mette infatti in luce alcuni aspetti della relazione uomo-donna fortemente significativi:
  • L‟unione matrimoniale è mediata dal denaro
  • Il rapporto moglie–marito è vissuto a livello di un rapporto schiavo–padrone
  • La possibilità di intessere relazioni sociali ed affettive esterne alla famiglia è di fatto attuabile solo per il marito
  • La richiesta di divorzio, benché teoricamente ammessa unilateralmente, si rivela realisticamente possibile e vantaggiosa solo per l‟uomo, in quanto per la donna essa soggiace alla riprovazione morale, all‟isolamento e alla morte sociale.
  • La vita coniugale per la donna è tutt‟altro che fonte di protezione, il parto è foriero di pericoli tanto quanto l‟esercizio militare e il cuore della donna, se minacciato nell‟intimo, abbandona la pavidità per diventare sanguinario non meno di quello dell‟uomo.
Luigi Barbero fa notare, nonostante la lontananza del contesto sociale e storico, un curiosa consonanza di idee tra Euripide e il drammaturgo norvegese ottocentesco Henrik Ibsen, il quale
scrisse: “ci sono due tipi di leggi morali, due tipi di coscienze, una in un uomo e un’altra completamente differente in una donna. L’una non può comprendere l’altra; ma nelle questioni pratiche della vita, la donna è giudicata dalle leggi degli uomini…”. Si tratta di un passaggio degli appunti che Ibsen stese per il suo dramma “Casa di bambola”, rappresentato nel 1879 a Copenaghen: una pungente critica sulla condizione della donna all‟interno della famiglia e della società borghese dell‟epoca vittoriana. La protagonista, Nora, moglie-bambola, priva di autonomia e maturità, quando prende coscienza della sua condizione reagisce e se ne va di casa per imparare a crescere come persona e diventare donna.
Certo, leggere la Medea come dramma borghese (una storia di tradimento e di vendetta efferata, che arriva a comprendere l‟uccisione dei figli oltre che della rivale, per gettare nella più nera disperazione il marito fedifrago) è un facile rischio, se non fosse che questa tragedia ha il merito di “estrarre dalle fitte trame del mito una vicenda compatta e coerente, in cui il carattere della persona balza in primo piano rispetto alla sequela delle funzioni e delle avventure; con questo però, cosa fondamentale per l’intelligenza del dramma, il complesso armamentario mitologico (in cui affonda le sue radici) non è affatto dimenticato: esso è piuttosto sospinto su uno sfondo da cui discendono suggestioni e significati assolutamente caratterizzanti che non si possono e non si lasciano ignorare.” (Mario Vitali)
Se nella Medea Euripide dà piena voce alle rimostranze della „parte lesa‟, nell‟Ippolito trova l‟occasione contraria di infierire spietatamente contro l‟intero genere femminile. Fedra, per crudele vendetta divina, sente insorgere un‟insana passione per il figliastro. Essa rifiuta e invano combatte
l‟incestuoso sentimento e soffre nell‟impari lotta contro la volontà di Afrodite, di cui ella è strumento indifeso. La rivelazione di tale tormento, da parte della nutrice, ad Ippolito stesso suscita nel giovane una sdegnata e fiera requisitoria contro le donne:
Zeus, ma perché
agli uomini hai portato alla luce del sole le donne,
subdolo malanno?
Se volevi disseminare la stirpe dei mortali,
non era necessario procurarlo per mezzo delle donne, ma che piuttosto
gli uomini, pagando con bronzo o ferro o oro,
nei tuoi templi compra
ssero il seme della discendenza,
ciascuno in base alla stima, e vivessero così in case libere senza femmine.
Ora, invece, per portarci
questo male in casa, ci beviamo il patrimonio familiare.
Ma è chiaro da ciò che la donna
è un gran malanno: perché il padre
che l’ha generata e allevata, aggiungendovi la dote,
poi la sistema via, per liberarsi da un fastidio.
E colui che si prende questo essere dannoso,
gode di adornare un idolo maligno,
e lo riveste di pepli, lo sventurato,
consumando le ricchezze domestiche.
E’ inevitabile che se si imparenta con gente d’alto rango,
mantiene godendoselo un letto odioso;
oppure se prende una brava donna,
acquisisce dei parenti inutili e la sventura insieme al bene.
La cosa più conveniente per uno è mettersi in casa una moglie da niente,
innocua per la sua stupidità.
Odio la donna intelligente:
che in casa mia non entri mai una con più senno
di quanto sia necessario per una femmina.
Infatti Cipride infonde più scelleratezza nelle sapienti:
la donna semplice non rischia la follia 
grazie al suo corto intelletto.
La donna poi non dovrebbe stare con la servitù,
ma avere a che fare solo
con bestie feroci mute,
per non poter parlare con nessuno
né sentire a sua volta parole.
Ora invece, le malvagie tramano malignità nelle stanze
e le serve le portano al di fuori.
Così anche tu, o maligna,
sei venuta qui per un’unione nel letto inviolabile di mio padre.
E io mi dovrò purificare con acqua corrente,
detergendomi gli orecchi. Come potrei essere disonesto io,
che non mi sento puro solo sentendo tali cose?
Sappi bene, donna, la mia religiosità ti preserva:
se non fossi stato sorpreso, incauto, con i giuramenti sugli dèi,
non avrei avuto scrupolo ad informare mio padre.
Ora me ne esco di casa, finché Teseo è lontano,
e terrò la bocca chiusa. Ma vedrò tornando qui con mio padre
come lo guarderete, tu e la tua padrona:
conoscerò il tuo ardire, avendone già avuto un assaggio.
Andate alla malora!
Non sarò mai sazio di odiare le donne,
neppure se mi si dicesse che lo ripeto sempre:
sempre infatti loro sono perverse.
E allora, o qualcuno insegni alle donne ad essere virtuose,
o mi si permetta di imprecare sempre contro di loro.
(Ippolito vv.616-668 – traduzione di M.Mainikka)
Tanto umana e sanguigna è la crudeltà di Medea, quanto disumana e viziata di ipocrita religiosità appare la virtù di Ippolito. Interessante notare come un certo lessico e determinate espressioni già riscontrati nel monologo di Medea siano presenti anche qui, ovviamente per ribadire concetti ribaltati e rivisti in chiave misogina:
  • Il lessico della compravendita, usato da Medea per condannare l‟unione dei sessi ridotta ad un commercio, serve ad Ippolito per ipotizzare l‟utopia misogina di “acquistare” la discendenza da parte del maschio senza bisogno della donna.
  • La libertà, diritto di cui secondo Medea la donna non può godere a differenza dell‟uomo, che ne è il padrone, è da Ippolito identificata con una vita senza donne.
  • La donna è spersonalizzata, concezione di donna-oggetto in perfetta sintonia in entrambe le requisitorie: non è nulla più di un κακόν (termine che Medea ovviamente utilizza specularmente per indicare la cattiveria dell‟uomo e l‟infelice condizione della donna), un male, una sventura, o al massimo un θυηόν, un essere vivente sì, ma appartenente al mondo vegetale, per altro dannoso o inutile.
  • A tal proposito a lei che, schiava del marito – δεζπόηης, tuttavia dovrebbe almeno essere δέζποινα nei confronti delle ancelle, non si vorrebbe concedere neppure di relazionarsi con la servitù.
Forzatamente isolata in un‟innocua stupidità indotta, onde arginare la sua „pericolosità‟, la donna vittima della misoginia culturale è ridotta a tutti gli effetti ad una „bambola‟, con cui l‟uomo ha diritto di giocare, su cui può infierire e che può gettare a suo piacimento. Ma Euripide deve aver sperimentato che difficilmente una donna accetta l‟umiliazione senza colpo ferire, ed è allora che la „bambola‟ riesce a trovare una logica a tutta la sua più pericolosa irrazionalità; e guidata da questa logica ella agisce (Τολμηηέον ηάδε…, Medea, v.1050): lucida è la convinzione irrazionale di Alcesti che scendere nell‟Ade al posto della persona amata sia un dovere; pienamente consapevole è l‟irrazionalità di Fedra che si impicca accusando Ippolito del falso stupro incestuoso; piena di inconfutabile logica è la raccapricciante volontà di Medea di colpire Giasone con l‟uccisione dei suoi stessi figli, da lui generati.

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Nimpo: Penelope allo Specchio

Penelope allo specchio: fili di una tela rivelatrice
di Flavio Nimpo

Penelope ha sentito e vissuto
il dolore di un parto
e aspetta come colonna cristallina,
mentre all’altare dell’amore
Cassandra non ha più voce…
(Francesca Aurelio)

Gli studi mi hanno consentito di accostarmi al personaggio di Penelope, avendo la possibilità di esplorare un universo interiore, che ha svelato lati nascosti di una figura tradizionalmente concepita come colei che attende per antonomasia, la sposa fedele, depositaria di valori pronti ad assimilarla all’immagine del focolare domestico. In effetti si è delineato un volto “a tutto tondo”, che ha rivelato tratti e sfaccettature capaci di rendere il profilo della regina di Itaca più complesso ed intrigante tanto da restituircela non in qualità di tessitrice instancabile, ma anche come donna multiforme al pari del suo amato consorte.

Lo spunto, che ha ispirato il presente lavoro, si deve alla lettura dell’interessante e pregevole saggio critico di Laura Faranda dal titolo Dimore del corpo [1]L. Faranda, Dimore del corpo, Meltemi Editore, Roma, 1997, in cui l’autrice dedica un capitolo allo specchio e alla tela, oggetti legati alla sfera femminile ed accomunati da un’essenza che rimanda all’immaginazione, al simbolico, alla rivelazione, al disvelamento dell’invisibile e ad una sorta di rovesciamento della realtà, ad un gioco di luci e di ombre. Entrambi rinviano ad elementi, che definiscono lo spazio delle donne in apparenza composto, ma possono trarre in inganno e non sempre sono garanzia affidabile di equilibrio e di saggezza. Come efficacemente scrive la Faranda a proposito della danza virtuale di una donna al suo telaio: “Una danza che sottomette lo specchio del tempo a tempi canonici femminili, ma che al tempo stesso , come vedremo, racconta un tempo “astorico” in cui la donna denuncia i propri nemici, in un linguaggio traducibile solo attingendo al lessico femminile maturato nelle leggendarie stanze del telaio. Stanze dove il tempo sembra arrestarsi e dove spesso il silenzio si articola – fra le trame e le scene allegoriche di un tessuto – in linguaggio del dolore” [2]L. Faranda, op. cit., p.24

L’arte della tessitura, che ritrova la sua patrona in Atena, dea dell’intelligenza unita all’astuzia, della capacità di saper approfittare delle occasioni e di ogni mezzo, rimanda all’abilità di intrecciare fili, trame ed orditi pronti a tradursi in progetti proposti, poi, sotto forma di narrazione dall’intelletto e, allora, le tele mostrano riflessi cangianti come lo specchio, rivelano, ingannano, nascondono il vero in immagine apparente.

Nei poemi omerici l’immagine e la metafora della tela si legano emblematicamente a determinate figure femminili, a partire proprio da Atena stessa, che, ad esempio, nei libri quinto e quattordicesimo dell’Iliade è la tessitrice da cui proviene l’arte del tessere come espressione di affermazione, ingegno, arte, abilità. Poi segue una carrellata di donne, in apparenza legate all’atto della tessitura quale conferma della loro condizione subalterna a quella maschile e non pubblica ma privata. In realtà le tele da loro tessute rivelano “storie taciute o nascoste”, che “tradiscono” la loro alterità. Come non pensare, a questo proposito, alla donna fatale per eccellenza? Elena, infatti, compare nel libro terzo dell’Iliade, quando è raggiunta da Iride, la messaggera olimpica, che la invita ad assistere al duello di Paride e Menelao e le instilla desiderio dello sposo e della propria terra, mentre l’altra è intenta a tessere una tela doppia e di porpora sulla quale ricama le imprese di Troiani ed Achei. La metafora di Elena al telaio rappresenta l’archetipo della poesia omerica: tessere e poetare sono speculari, le due arti ricorrono agli stessi procedimenti, differiscono solo per il rapporto immagine-parola, poiché la prima, filata sul tessuto, fornisce materia all’altra. Nell’Odissea la tessitura si lega all’idea di trama e di insidia: Calipso e Circe tessono e la loro tela non è solo metafora del racconto, ma anche dell’inganno perpetrato, per raggiungere uno scopo ben preciso. Esse tessono cantando: la malia del canto, con cui intendono sedurre, si nasconde nell’atto, apparentemente innocuo, di stare al telaio. La voce rivela il loro vero intento e la loro natura: cantano e suscitano incanto come le Sirene, mentre Penelope tesse, ma piange, ci ricorda Eva Cantarella [3]E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2002, pp.137-138. Ecco, dunque, la tessitrice per antonomasia: Penelope, figlia dello spartano Icario e della Naiade Peribea, colei che il padre aveva temuto a causa dell’erronea interpretazione di un oracolo, secondo cui ella avrebbe tessuto il suo sudario, e così aveva ordinato che fosse gettata in mare, dimenticando le origini marine della piccola, partorita da una ninfa del mare e destinata a vivere l’acqua come elemento naturale. Suggestive le parole con cui, secondo Margaret Atwood, la madre si era rivolta a Penelope: “L’acqua non oppone resistenza. L’acqua scorre. Quando immergi una mano nell’acqua senti solo una carezza. L’acqua non è un muro, non può fermarti. Va dove vuole andare e niente le si può opporre. L’acqua è paziente. L’acqua che gocciola consuma una pietra. Ricordatelo, bambina mia. Ricordati che per una metà tu sei acqua. Se non puoi superare un ostacolo, giragli intorno. Come fa l’acqua” [4]M. Atwood, Il canto di Penelope, Rizzoli, Milano, 2005, p. 44

La futura sposa di Ulisse è, dunque, destinata ad essere paziente, tenace, capace di insinuarsi e di superare gli ostacoli come l’acqua; ella diventerà la donna che osserva, medita, tesse nel senso letterale e in quello traslato, per, poi, esprimere il suo muto dolore con sottile atto esplosivo e non implosivo, come l’apparenza indurrebbe a pensare. Infatti cade il pregiudizio, che mostra una regina dimessa e silente, e si palesa una natura bifronte: Penelope è parimenti disinvolta e timida, dominante e sottomessa, pronta all’accettazione e al rifiuto, al ritiro e all’esternazione; appare prigioniera del proprio ruolo, ma, nello stesso tempo, evidenzia un’inesauribile coazione all’ordito, come scrive Amalia Vanacore, l’ordito del “drappo che la regina tesse e disfa per il suocero Laerte. Si nota chiaramente, in questo atteggiamento, il meccanismo di difesa detto di coazione a ripetere, che spinge l’individuo a mettere in atto determinati comportamenti di cui egli stesso riconosce l’inutilità. Penelope, tuttavia, lucida e determinata nel suo comportamento, ne intravede l’utilità, giungendo a realizzare un gioco di seduzione tra i Proci attraverso il desiderio e l’attesa.” [5]A. Vanacore, Antologia omerica modulare, Loffredo Editore, Napoli, 2004, p. 90 Ella è definita bella e saggia, ma può essere definita come Ulisse multiforme, versatile, accorta, capace di molti espedienti, poiché è figlia della ragione, imperterrita calcolatrice, che medita altro, ci ricorda Pietro Citati, secondo il quale “lo spirito di Penelope è sempre doppio: mentre parla, una forza segreta, che agisce dentro di lei, ragiona, trama, macchina, calcola, inganna, esattamente come fa Ulisse. (…) Il marito e la moglie sono simili e dissimili: si contraddicono e si completano.” [6]P. Citati, La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, pp.239-240 Il suo tessere si differenzia da quello di Calipso, Circe ed Elena, poiché, pur rimandando, come il loro, alla metafora di un intreccio di fili che narra ed irretisce, rispecchia la sua paziente attesa e la sua tacita abilità ingegnosa di progettare, con le quali intende rendere l’inutile atto di fare e disfare l’utile volontà di fermare il tempo. “Penelope tesse (e, finché può, ritesse) un immenso lenzuolo assolutamente privo di ricami, di immagini, di storie: un sudario, tutto bianco, luminoso come sole o luna” (Od., XXIV, 148). Ora, la scelta dell’oggetto è senz’altro intonata sia all’età avanzata del padre di Odisseo e al suo stato di sofferenza per la scomparsa del figlio (…) sia alla situazione, di fatto vedovile, luttuosa, di Penelope stessa: ma anche e soprattutto è intonata al vuoto totale di notizie attendibili intorno al suo sposo: quello che Penelope non può, ma che tanto vorrebbe ritrarre sulla tela, è l’Odissea stessa, la storia di Odisseo, del suo infinito peregrinare alla ricerca di Itaca (…) Il bianco del telo è il vuoto temporale dell’assenza del marito: è come se il tempo si fosse fermato nell’attesa del suo ritorno.” [7]Chiarini, in F. Malvezzi, Epiké, Società Dante Alighieri Editrice, Roma, 2010, p. 174-175 L’incessante
tessere della sposa di Ulisse ci appare come espressione del suo stato: l’attesa di colei che medita e ordisce. La ripetitività del gesto identico della tessitura è cadenza di un tempo immobile, solitario, è l’immagine dell’identico senza fine, come suggerisce la Faranda. [8]L. Faranda, op. cit., p. 31-32 L’astuta scelta del tessere e del disfare la tela è tempo del dolore, che si consuma, in attesa del divenire. In apparenza Penelope nega il presente, nel silenzio e nella solitudine delle sue stanze, per tessere, in realtà, i fili intrecciati dal suo ingegno, che pianifica il ritorno alla sua dimensione di sposa e di regina. La tela è “l’unica via che conosce per coniugare passato e presente, per accordare la memoria alla progettualità, l’irruzione degli eventi ai suoi ritmi temporali, alla sua storia personale.” [9]L. Faranda, op. cit., p. 34 Fin qui si delinea il profilo assodato di una donna bella, saggia, rispettosa di norme e costumi pubblici e privati, assennata, instancabile nelle opere e nei lavori che si addicono al mondo femminile, ma a queste qualità si aggiunge solo per lei, fra tutte, l’astuzia, come ci fa notare Eva Cantarella: “la celebre metis, che caratterizza suo marito: l’intelligenza astuta, una forma di intelligenza, sia ben chiaro, inferiore al celebre logos, non a caso esclusivamente maschile. (…) Un’intelligenza “bassa”, frutto dell’esperienza e della riflessione, utilizzata per raggiungere obiettivi concreti, spesso materiali”.[10]E. Cantarella, op. cit., p. 62 Per tale tratto, dunque, ella apparirebbe unica, “insolita”, “ambigua”, una sorta di eroina tra lacrime e macchinazioni e, di conseguenza, non stupisce che studiosi della civiltà classica ne siano rimasti suggestionati a tal punto da analizzare le figure di Ulisse e di Penelope da un altro punto di vista, giungendo a conclusioni che esaltano la complessità, la lungimiranza, il fine acume della consorte dell’eroe di Itaca, addirittura superiore, per certi aspetti, a quello dello sposo. Ne deriva un’immagine, che la propone fiera del suo intelletto, della sua metis, della sua capacità di tessere tele reali e metaforiche, di filare nel silenzio e nell’attesa trame ed orditi che riconducono alla vita intesa come rapporto dell’io con l’altro. Come suggerisce sempre la Cantarella, l’Odissea rivela qua e là indizi di tratti inconsueti della regina itacese, la cui astuzia sembra stridente con la realtà delle donne oneste, secondo la mentalità del tempo. Inoltre “la pudicizia e soprattutto la fedeltà di Penelope sono tutt’altro che al di
fuori di ogni sospetto. Più di una volta, Penelope appare diversa dalla sua plurisecolare, consolidata, inossidabile immagine di moglie incorruttibilmente fedele. Nelle sue stanze, di giorno e di notte, questo è vero, Penelope piange. Piange per la lontananza del marito, piange per l’incertezza della sua sorte, si dispera all’idea di nuove nozze. Ma ai pianti alterna momenti di ripensamento, durante i quali sembra prendere in considerazione l’ipotesi di prendere nuovamente marito.” [11]E. Cantarella, op. cit., p. 65-66 I pretendenti, infatti, dichiarano di essere illusi da lei, di ricevere di nascosto promesse e messaggi, che inducono a sperare e, implicitamente, rivelano una sottile forma di seduzione. Essi sono rimproverati di non essere corteggiatori di tempi precedenti, che erano soliti
portare doni e così si affrettano a donarle pepli, fibbie, collane, pendenti di perle, che Penelope accetta e mette al sicuro. A tal proposito, però, si potrebbe anche pensare alla trama di un’altra tela: rimpinguare i beni sperperati dai Proci, sedotti e confusi con grazia; intanto, come suggerisce l’interpretazione di Pietro Citati [12]P. Citati, op. cit., p. 243, ella, ispirata da Atena, tesse i fili che la riannodano ad Ulisse.

Dunque Penelope è assolta o, ancora, ombre opacizzano la sua figura? Se Citati assolve la regina, la Cantarella instilla altri dubbi sul suo profilo “ambiguo”, ricordandoci che, fin dall’antichità, si avanzarono dubbi sulla fedeltà della sposa di Ulisse e, di conseguenza, sulla paternità di Telemaco, come si allude in alcuni libri dell’Odissea (I, 215-216; III, 122-123; XVI, 300). L’autrice, inoltre, segnala altre fonti: “Nella Epitome della Biblioteca di Apollodoro (7, 38), per cominciare, leggiamo che secondo alcuni Ulisse, tornato a Itaca, rimandò Penelope dal padre Icario, perché si era fatta sedurre da Antinoo (secondo altri, invece, Ulisse l’avrebbe uccisa perché si era fatta sedurre da Anfinomo). Seguendo la tradizione di Mantinea, riportata da Pausania (8,12, 5 sgg.), Penelope, dopo il ritorno di Ulisse, sarebbe stata bandita da Itaca per infedeltà , e dopo un lungo esilio, dapprima a Sparta e quindi a Mantinea, sarebbe morta in quella città, ove si troverebbe la sua tomba. Cicerone (La natura degli dei, 3, 22, 56) ricorda la tradizione secondo cui, unitasi a Ermes, Penelope avrebbe generato Pan, e gli scolii di Tzetze all’Alessandra di Licofrone (v.772) arrivano significativamente a considerare Pan come generato da tutti i pretendenti.” [13]E. Cantarella, op. cit., p. 70 Come, dunque, collegare tutto ciò al profilo tradizionale della sposa di Ulisse? A soccorrerci giunge sempre il commento illuminante della Cantarella: si deve ricordare che l’opinione sulle donne, nel mondo classico, non era favorevole e induceva a diffidare di loro. Penelope, unica per intelligenza legata all’astuzia, rimandava al cliché femminile dell’uomo omerico, secondo cui anche la migliore delle donne era infedele, volubile, interessata. [14]E. Cantarella, op. cit., p. 71-72

Le ambiguità e le contraddizioni di questo personaggio risalgono, forse, “alla contraddizione tra la funzione didattica della poesia epica e la mentalità di chi l’ascoltava (e dell’aedo stesso). Data la sua funzione di formazione culturale, la poesia doveva rappresentare una donna che simbolizzasse tutte le virtù femminili. A Penelope toccò in sorte di essere quella donna. Ma il mondo in cui la poesia svolgeva questa funzione diffidava profondamente delle donne. Penelope, nei suoi diversi aspetti, nelle sue diverse manifestazioni e contraddizioni sembra riflettere tale contraddizione. Da un canto (prevalentemente) Penelope era il modello; dall’altro (di quando in quando: ma con una certa frequenza) era una donna, con tutti i caratteri e i difetti che gli uomini omerici pensavano che le donne avessero.” [15]E. Cantarella, op. cit., p. 72 Comunque stiano le cose, in conclusione, preferisco sintetizzare la figura di questo suggestivo personaggio con la definizione, condivisa in pieno da me, del già menzionato Citati: Penelope è quella dei segni segreti nascosti agli estranei, “come interprete e custode dei segni (noi diremmo dei simboli), Penelope è molto più sottile del marito. Forse il dono di cogliere i segni, nei quali si concentra l’affettuosa intimità di un rapporto, è un’arte soprattutto femminile. Essi sono il vero tesoro di Penelope: più importanti di tutti quelli che custodisce nella dispensa. Tra poco, senza dire una parola, Penelope insegnerà quest’arte ad Ulisse.” [16]P. Citati, op. cit., pp.269-270

Ella è la donna di cui C. Marchesi ha scritto: “Un lieve sorriso lampeggia sulle sue labbra (…) Penelope scende giù; e si ferma sulla porta, con più mistero nel volto chiuso dal velo fin sulle gote…” [17]C. Marchesi, Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946, p. 218. La regina di Itaca è figura emblematica, che continua a suggestionare e ad ispirare per il suo fascino “silente e apparentemente dimesso”, avvolto in una dimensione complessa e multiforme. Si pensi, ad esempio, ai versi di poeti greci del Novecento: “Il tuo cuore eletto / – eletto perché io l’ho scelto – / sarà sempre altrove / e io taglierò con le parole / i fili che mi legano / a quest’uomo particolare / del quale ho nostalgia…” (da Dice Penelope, di Katerina Anghelaki-Rooke); “Lei si voltò e, assennata come sempre, / gli rispose: “Questo mio cuore, che tu / definisci duro e inflessibile, non lo trovo più, / perché mi è impazzito nel petto, / e non ha più parole, e china il capo.” (da Penelope riconosce Odisseo, di Kiriakos Charalambidis).

Senza andare troppo lontano, possiamo avvalerci anche del contributo di autori contemporanei e locali: “Simbolo di fedeltà e pazienza infinita / accompagni ogni donna al tuo destino. / Così voleva Omero e tutti gli uomini del mondo.” (da Penelope, di Rosellina Prete); “Sfilo la tela / più per fragilità / che per costanza / e la paura del suo mancato arrivo / precipita me / nel baratro di un cuore / che dimenticherà le vibrazioni / della parola pace.” (da Odissea 2012, ne Il bilico, di Francesco Lappano); “Aspetto che sia l’ora / della dimenticanza, / per vederti arrivare / dall’onda meretrice / e negarmi al primo / sguardo traditore / che tesse ancora / malie e…domande / e turbinose fole.” (da La mia Penelope 2013, di Francesca Aurelio); “Vago come zattera / alla deriva… / Attendere è il mio destino / ma scruto nei meandri / del mio essere / e ritrovo la chiave / che mi riconduce a me stessa / per vivere…” (Penelope, di Divina Lappano); “Vivo dove cambia / ogni colore dell’arcobaleno / con un silenzio nel cuore / per una voce troppo lontana / Ho seguito i fili dell’attesa… / Il rumore del telaio / scandiva ogni domanda / e la speranza era il fiato / che diceva domani / Ah, il veleno dei ricordi! / Il gomitolo che inghiotte / ogni altro desiderio / Il disegno incompiuto / è il nostro destino / La mano che fa e che disfa / ignora l’inganno / Una sola è la strada del cuore / Possa la vita insinuarsi / e squarciare col suo lampo / l’orologio fermo del mio tempo! / Io / schiava della mia catena / attendo te / con la tua faretra colma / delle frecce che mi hai rubato / Credere / è la sfida più grande / e quest’audacia ha un solo nome / il mio: / Penelope” (I fili dell’attesa, di Elisa Biasi); “Attendere è apnea / insopportabile… / Anelo riemergere / dall’abisso di fondali / che struggono la mia anima… / Sono io la più forte / e non lo sapevo… / Il tuo ingegno / impallidisce dinanzi al mio / che prevede le tue mosse… / È solo il mio cuore infinito / ad amarti… / A lui solo / devi la mia attesa / incessante, / mentre desidero riaffiorare / a pelo d’acqua, / per respirare l’aria salmastra / del mare… l’unico / che mi abbia amato / veramente…” (Il respiro di Penelope, di autore che ha richiesto l’anonimato).

Il suggestivo mosaico, realizzato con le tessere disseminate lungo l’ideale viaggio alla riscoperta di Penelope, contribuisce a rivelare il luminoso intreccio di candidi fili, che compongono la sua tela, specchio di sé e di quanto afferisce al suo mondo pubblico e privato. Essa è il simbolo in cui si racchiude l’essenza del personaggio stesso, che, secondo le parole a lei attribuite da Margaret Atwood, precisa: “Non amo che si usi la parola tela. Se il sudario fosse stato una tela, io sarei stata un ragno, ma il mio scopo non era catturare gli uomini come fossero mosche, al contrario, non volevo farmi catturare.” [18]M. Atwood, op.cit., p. 94


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Riferimenti:   [ + ]

1. L. Faranda, Dimore del corpo, Meltemi Editore, Roma, 1997
2. L. Faranda, op. cit., p.24
3. E. Cantarella, Itaca, Feltrinelli, Milano, 2002, pp.137-138
4. M. Atwood, Il canto di Penelope, Rizzoli, Milano, 2005, p. 44
5. A. Vanacore, Antologia omerica modulare, Loffredo Editore, Napoli, 2004, p. 90
6. P. Citati, La mente colorata, Oscar Mondadori, 2004, pp.239-240
7. Chiarini, in F. Malvezzi, Epiké, Società Dante Alighieri Editrice, Roma, 2010, p. 174-175
8. L. Faranda, op. cit., p. 31-32
9. L. Faranda, op. cit., p. 34
10. E. Cantarella, op. cit., p. 62
11. E. Cantarella, op. cit., p. 65-66
12. P. Citati, op. cit., p. 243
13. E. Cantarella, op. cit., p. 70
14. E. Cantarella, op. cit., p. 71-72
15. E. Cantarella, op. cit., p. 72
16. P. Citati, op. cit., pp.269-270
17. C. Marchesi, Voci di antichi, Leonardo, Roma, 1946, p. 218
18. M. Atwood, op.cit., p. 94